Opzioni settimanali: una opportunità o un rischio?
Un vantaggio o un rischio?
Uno dei primi temi prettamente operativi affrontati nel Percorso completo futures e opzioni è quello dell’analisi statistica dei mercati. Essa è finalizzata alla creazione di strategie di breve termine che dovrebbero avere le probabilità dalla loro parte. Permettono al trader di guadagnare in un gran numero di occasioni e limitano al massimo il rischio di incorrere in perdite.
L’analisi statistica del mercato può essere un valido strumento per la corretta valutazione del rischio e del rendimento potenziali. Questo a patto di saper leggere i risultati delle analisi e di non basarsi su preconcetti errati.
E stando pronti ad ottenere risultati per niente in linea con ciò che si sperava di ottenere…
Un bene per te o per il tuo broker?
Da diversi anni ormai sono disponibili sui mercati le opzioni settimanali.
In alcuni casi, a dire il vero, l’offerta si è arricchita anche con opzioni a tre giorni e addirittura a un giorno, vedi ad esempio sull’ETF americano SPY, collegato all’indice S&P 500.
Con un po’ di malizia viene da chiedersi se questa non sia semplicemente una manovra commerciale. La furbata per aumentare la frequenza dell’operatività dei trader e di conseguenza ingrossare le tasche dei broker.
Lascio a voi le valutazioni in merito.
Noi abbiamo scelto di analizzare un po’ di dati oggettivi e di formulare qualche ragionamento matematico al di là delle opinioni personali.
Quale operatività può apparire sensata in questo ambito?
Facciamo un passo indietro e chiediamoci innanzitutto quale comportamento operativo si potrebbe scegliere di adottare su un orizzonte settimanale.
Una idea che ci si potrebbe fare è che su un lasso di tempo così breve i movimenti di mercato dovrebbero essere generalmente tanto contenuti da rendere senz’altro conveniente lo short strangle. Esso è la vendita simultanea di put e call senza alcuna copertura all’esterno (altrimenti diventerebbe un iron condor, strategia a rischio limitato, ma a minore redditività rispetto allo strangle).
La domanda, quella davvero importante, è su quali estremi porsi venditori allo scoperto di opzioni i cui strike si spera non verranno superati durante il periodo di interesse.
L’analisi statistica dei rendimenti è il primo passo
Qui ci vogliono un minimo di intraprendenza e di competenze informatiche e statistiche per smazzarsi qualche centinaio o anche migliaio di righe di dati storici alla ricerca di risposte.
Un lavoro che ho personalmente compiuto su diversi mercati, ma in particolare sul mercato delle opzioni su indice FTSE Mib.
Ebbene, la statistica insegna che se ragioniamo sul mercato italiano, tanto per restare in un ambito caro a tutti noi, il range massimo settimanale di movimento dell’indice FTSE Mib al 70% circa è nell’ordine del 2.5% circa per lato.
Qualcosina in più sul lato put, a dire il vero.
Se si utilizzasse il modello Normale, l’intervallo sarebbe ben più ampio, ma questa è un’altra storia…
Dal dato statistico all’operatività pratica
Torniamo a quel 2.5%, che è frutto di uno studio storico che copre oltre 500 settimane di dati di mercato.
L’idea sarebbe di vendere put e call con strike distanti circa il 2.5% dal prezzo corrente del sottostante ogni venerdì mattina, con orizzonte temporale fino al successivo venerdì mattina (quando le opzioni scadono e ci si riposiziona avanti una nuova settimana).
Il range statistico osservato, infatti, è proprio la distanza tra aperture successive del venerdì mattina, lasso temporale tipico dell’operatività di cui parliamo qui.
Questa pratica dovrebbe darci il 70% circa di probabilità di successo, il che potrebbe portarci all’errata convinzione di essere infallibili nel lungo periodo.
In questa pratica apparentemente semplice si nascondono però diversi problemi
Come dicono gli anglosassoni, tuttavia, il diavolo è nei dettagli!
Il problema, infatti, nasce su almeno tre fronti.
Il primo è che le perdite che si maturano nel restante 30% dei casi sono tali da annullare i profitti delle altre e portare abbondantemente in negativo il saldo complessivo.
Il secondo è che su un orizzonte così breve i premi che si possono incassare su strike posti al 2.5% circa di distanza dal sottostante sono molto risicati, a meno di situazioni particolari di mercato.
Il terzo è che spesso il sottostante fuoriesce dall’area profittevole durante la settimana, costringendo il trader a sudare sette camicie e spesso a non dormire la notte pregando che il movimento ritorni sui propri passi.
Senza contare poi il fatto che molti, trovandosi in oggettiva difficoltà – finanziaria e psicologica – durante la settimana, potrebbero decidere di intervenire in vari modi sulla strategia, scombinandone la statistica di base.
Ma perché allora non considerare il delta hedging?
A questo punto potrebbe venire la tentazione di arrampicarsi sugli specchi e di affermare che comunque il rischio derivante dalla fuoriuscita del sottostante da uno dei due lati della strategia potrebbe essere tagliato inserendo nella ricetta anche il sottostante, da comprarsi o vendersi a seconda dei casi, e in misura proporzionale al delta della strategia stessa, così da rendere quest’ultima insensibile alle variazioni di prezzo del sottostante.
Qui si apre un altro mondo di valutazioni statistiche, di analisi, di prove e contro-prove.
E di problemi.
Tanti, tanti problemi.
Sui quali tutti (o quasi) sorvolano, vuoi perché non ne sono consapevoli, vuoi perché si illudono di poterli risolvere con leggerezza, vuoi ancora perché nemmeno fanno trading, ma ne parlano come se fossero grandi esperti.